Archivio di Gennaio 2011

Non è il momento?

domenica, 30 Gennaio 2011 by

Ci aveva messo l’anima, il corpo e la passione per trovarsi lì, in quel momento. Lasciare quello che si conosce per andare verso il cambiamento è necessario. Di solito non se ne ha il coraggio per paura di giungere a conclusioni affrettate. Margherita però non aveva paura. Quando scese dal suo treno non sapeva bene che strada prendere. La confusione che regna delle stazioni ferroviarie è assimilabile a quel caos interiore che abbiamo quando un’emozione ci sconvolge. Fidanzati che faticavano a lasciarsi le mani, bambini che correvano in contro a padri che non vedevano da tempo madri che aiutavano i ragazzi in partenza per le città universitarie a caricare le valigie sul vagone. Infine c’era lei, con il suo borsone nero. Seppur stanca e provata dal lungo viaggio, rimaneva genuina nel suo volto. La pelle chiara e con qualche imperfezione descriveva perfettamente la sua giovane età. Non era eccessivamente magra ma sua madre, una donna critica e ferma, la descriveva come “ un manico di scopa”. Le guance rosee tradivano i suoi cambiamenti di umore e le mani composta da lunghe ed sottili dita definivano ancora di più quella figura caricaturale. Sapeva bene che non poteva fare di meglio e che pur indossando abiti non troppo aderenti  avrebbe comunque dato nell’occhio. Infatti si accorse che un uomo la stava fissando. Con lo sguardo percorreva quell’autostrada di fisico che si ritrovava ad avere, libero da ogni collina. Si sentì in forte imbarazzo ma non abbassò lo sguardo neanche quando l’uomo prese l’iniziativa e si avvicinò. Non era molto bello, non era troppo alto ma era affascinante. Morbosamente attraente. Avanzava lentamente e si fermò a una distanza di 5 passi dalla giovane ragazza, poi schiarendosi la voce iniziò a dire qualcosa.

“Sei molto carina, mi piace quel cappotto”

“Non sei originale, per niente. Piuttosto, dov’è l’uscita dal binario?”

L’uomo accennò una risata e indicò un cartello enorme con la scritta “ USCITA” proprio di fronte a lei. Margherita si sentì una stupida e cercò disperatamente di non darlo a vedere ma si tradì storcendo la bocca.

“Se vuoi, ti accompagno. Ho la macchina qui fuori”

“Come preferisci”

In effetti pioveva e non era una buona idea prendere i mezzi pubblici per arrivare al suo albergo, per cui optò per il fidarsi dello sconosciuto.

“Mi chiamo Michele, sono uno scrittore”

“Mi chiamo Margherita, sono una scrittrice”

Si guardarono un attimo fisso e si sentirono scomodi.

“ In realtà non è che sono proprio uno scrittore vero. Scrivo per passione ma lavoro in un ufficio. Passo tutto il giorno ad ascoltare i problemi dei miei colleghi e a compilare scartoffie che non mi interessano. Tu come mai ti trovi a Roma?”

“Io? Io sono partita con un sogno. Nel mio borsone ho un manoscritto e domani mattina ho un appuntamento con una Casa Editrice.”

“Interessante. Quindi sei solo di passaggio?”

“No, se va bene rimango”.

Rimanere lì, quanto lo avrebbe voluto. Per scrivere quell’abbozzo ci aveva messo due anni di duro sacrificio, tra un esame di Economia e l’altro. Chi studia quel genere di materie può capire quanto sia facile rischiare di farsi influenzare e perdere la bussola della propria creatività. Ti insegnano a ragionare per ipotesi, schemi, modelli astratti, grafici e quant’altro, tutte cose che a lungo andare intorpidiscono la mente e ti rendono schiavo di quel tipo di mentalità chiusa e prevedibile. Per la laurea c’era tempo ma non le importava troppo, voleva continuare ad assecondare la sua naturale inclinazione alla scrittura in modo ostinato. Nessuno della sua famiglia era a conoscenza di questo manoscritto, i suoi amici ignoravano la sua passione, lei stessa non si sarebbe mai sognata di mettere in piazza quel suo progetto.  Non tanto per la paura di un giudizio negativo,  quanto più per non rovinarsi quel momento.Sua madre le avrebbe detto di pensare a studiare  perché scrivere romanzi non porta pane a casa e una laurea in Economia, quella sì che le avrebbe garantito un futuro. Un giorno aveva provato a parlarle di una vaga idea che aveva, quella di scrivere un romanzo fatto di cinque racconti diversi ma con un filo invisibile che li legava tra loro. Lei ne aveva riso e voltandosi verso la finestra aveva esclamato “ Dai su, pensa alle cose serie”.Nonostante questo Margherita non si era persa d’animo e aveva continuato per la sua strada, alternando forti momenti di ispirazione ad altrettanti di demotivazione. Le capitava magari un’idea geniale mentre era in aula di lezione mentre tutto ascoltava tranne le parole del professore. Allora prendeva il suo taccuino e vi annotava qualcosa, senza farsi vedere dai compagni di corso. A volte non faceva in tempo a tornare a casa che un pensiero l’assaliva a un semaforo rosso in procinto di scattare sul verde.  Pensava a sua madre, forse lei non aveva mai avuto un sogno.Arrivarono all’albergo dopo neanche trenta minuti di discorsi banali e già sentiti. Lui le lasciò il suo numero e le augurò una buona fortuna, lei scettica sorrise e lo ringraziò. Salì nella sua camera e senza neanche mangiare un boccone, indossò il pigiama di flanella e si addormentò nello scomodo lettino.Il mattino seguente la sveglia suonò alle 7. Margherita balzò dal letto e si diresse verso il bagno. Preparò l’occorrente per una doccia veloce e dopo essersi spogliata, entrò nella cabina. Ci rimase per poco più di venti minuti e mentre l’acqua calda le scorreva sulla testa, passando sul viso e sulle labbra, mentalmente già percorreva la strada che avrebbe dovuto fare.Scese a colazione, pagò il conto della camera e con il suo borsone nero in spalla si diresse verso la fermata dell’autobus. L’orologio segnava le 8. Aveva l’appuntamento con quell’editore per le 10 e mezza, pensò che avrebbe fatto in tempo. Scese dal bus alle quinta fermata e imboccò una viuzza laterale. Trovò subito il portone del palazzo perché su di esso, alla sinistra, era affisso un cartello con la scritta non troppo evidente ma facilmente riconoscibile del nome della Casa Editrice che aveva in mano il suo Sogno. Suonò al citofono e rispose una donna dal tono acido invitandola a salire. Doveva arrivare fino al sesto piano ma non prese l’ascensore, salire le scale a piedi l’avrebbe aiutata a smaltire l’adrenalina dell’attesa. La segretaria dalla voce acida e con un neo su una guancia la invitò ad accomodarsi nel salottino allestito come sala d’attesa. A giudicare dalla non presenza di alcuno, Margherita pensò di essere fortunata. Sul tavolino di vetro a fianco prese una rivista, risalente all’anno 2003. In uno di questi articoli si parlava della fatica delle donne ad accontentarsi di un uomo “nella media”, desiderando per se stesse non si capisce cosa. Era più che evidente che a scrivere quell’articolo doveva essere stato un uomo deluso o frustrato.

-Che assurdità- si disse.

La segretaria dalla voce acida, il neo su una guancia e la camminata sbilenca finalmente l’annunciò. Margherita poggiò al volo la rivista, prese il manoscritto dal borsone e sistemandosi per l’ultima volta i capelli, si diresse verso l’ufficio.La donna che l’attendeva somigliava a un personaggio dei fumetti. Era piccola, occhialuta, con un rossetto violentemente rosso, delle mani decisamente volgari e fuori dall’ordinario. Quando Margherita entrò neanche alzò lo sguardo ma fece un gesto che avrebbe dovuto significare “Avanti” con la mano destra, tenendo stretta nell’altra un foglio.

“Così lei sarebbe la giovane che mesi fa ci ha inviato IL manoscritto” . Sottolineò quel “IL” con un tono isterico.

“Salve. Sì, mi ha chiamato la sua segretaria per darmi appuntamento e…”

“Sì, sì, andiamo al dunque” la interruppe. Margherita attendeva con ansia le parole di quella strana signora e si domandava se a giudicare dal suo atteggiamento frettoloso, non avesse avuto la stessa ansia nel leggere il suo libro.

Rimase seduta in silenzio ad aspettare per almeno trenta secondi, così la signora stramba iniziò a dire di quanto fossero arroganti i giovani di oggi nel credere che basti scrivere un “manoscrittino” ( lo definì proprio così ) per ritenersi degli scrittori. Ai tempi suoi – diceva – quanta gavetta dovevano fare prima che qualcuno prendesse in considerazione anche solo un racconto, scritto e sudato chissà dopo quanto tempo. Invece i giovani d’oggi – e doveva avercela pesante con lei e con le generazioni attuali perché coglieva una punta di astio ogni qualvolta che quell’espressione si posava sulla sua lingua – arrivano da lei con storie trite e ritrite, senza originalità, senza un corpo, un cuore né un’anima. Solo per vanità e riconoscimento personale. Andò avanti così passando da insulti velati e generici a smontare pezzo per pezzo quel manoscritto, leggendo ogni tanto degli estratti per renderli ridicoli.Mentre la donna stramba ragionava – si fa per dire- in questi termini, Margherita sembrava quasi aver perso il respiro. Continuava a guardarla negli occhi e le guance diventarono rosse ma sperò che non si notasse. La strega si interruppe nell’attesa forse di sentirsi dire un qualsiasi “Ma” dalla ragazza. Invece lei rimase compatta, si alzò composta dalla sedia e disse soltanto, tradita per un attimo nella voce da un tremolio “La ringrazio del suo tempo” e si voltò con dignità e contegno.

“Non ha nient’altro da aggiungere?” provocò la stramba signora un po’ strega.

“No. Potevo aspettarmelo. Può capitare”

“Hai stoffa “disse. “ Un’altra al posto tuo sarebbe scappata piangendo, almeno per orgoglio ferito. In questo mestiere non sempre arrivano applausi e contratti, a volte piovono massi. Volevo vedere la tua reazione, ti ho chiamata fin qui per questo. Non mi piace il tuo manoscritto, trovo sia troppo immaturo, disomogeneo e mancante di uno stile che lo contraddistingua. Roba già letta. Apprezzo la trama, però. Questo tema del sogno preponderante in tutti e i cinque i racconti, che si intrecciano tra loro come una maglia fitta quasi a voler incastrare il lettore. Torna domani, possiamo lavorarci su. Ora via, sparisci “.Detto questo, la segretaria dalla voce acida, il neo sulla guancia, la camminata sbilenca e la camicia celeste entrò nella stanza indicando a Margherita di seguirla.Uscita dal palazzo riprese a respirare. Non era andata come immaginava ma tutto sommato non poteva che essere fiera di sé. Si ricordò di Michele, il ragazzo che la sera prima l’aveva accompagnata all’albergo dalla stazione. Le venne in mente di chiamarlo. Michele non rispose. Chissà, ora che sapeva che probabilmente sarebbe rimasta a Roma almeno per quella settimana avrebbe potuto richiamarlo.Con il sorriso stampato sulle labbra, si allontanò dal quella via e si diresse verso la fermata dell’autobus. Il giorno, dalle premesse, si prospettava buono.

Michele quel giorno si svegliò di malumore. Non sapeva neanche lui il perché ma percepiva nell’aria qualcosa di strano. In canotta e boxer si diresse nella sua cucina e si preparò il caffè. Il cellulare era rimasto spento dalla sera prima, quando aveva accompagnato Margherita in albergo. Pensò che forse era il caso di accenderlo. Dopo pochi secondi, arrivò il messaggio della ragazza.“Ciao, ho provato a chiamarti ma il telefono risultava spento. Oggi sono stata dalla direttrice della Casa Editrice. Se vuoi, richiamami”. Michele sorseggiando il caffè pensò a quel bel paio di occhi di Margherita e decise di richiamarla.Non era un ragazzo che parlava molto. Dopo la fine della sua convivenza con Marianna, aveva lasciato perdere le donne. “Donne: ”- diceva- “esseri complicati senza un perché”. I suoi amici al bar raramente erano così sobri da cogliere una citazione così intelligente e continuavano a parlare di quanto fossero belle le ragazze che passavano davanti al locale.Michele era stato insieme a Marianna per 14 anni e non si ricordava più cosa significasse essere individuo singolo. Viveva la sua condizione di quasi-sposato come se fosse stata l’unica possibile. Non aveva hobby, interessi, non praticava sport. Niente di niente.Quando lei se ne andò con un ragazzo conosciuto per caso, gli rimase solo il miniappartamento dove vivevano. Tanto gli bastava. Voleva imparare a vivere solo. Mangiare da solo. Dormire da solo. Cambiare di nuovo la sua vita, quando credeva di essere a buon punto. Cambiare direzione, sentirsi di nuovo libero. Invece quella ragazza del giorno prima l’aveva turbato e lui era andato a letto con un mal di testa improponibile.Non aveva il coraggio di farsi domande. Afferrò solo il telefono e chiamò Margherita.Lei dalla voce sembrava entusiasta di sentirlo. Trovandosi sola in una città che non conosceva, avere un amico l’avrebbe aiutata.Invece Michele dall’altra parte del telefono sembrava di ghiaccio. Non voleva amici. Non voleva donne. Non era pronto.

Un’uscita di emergenza

domenica, 30 Gennaio 2011 by

….Che non lasci tracce, come il vero amore secondo Cohen.

Nemmeno l’uomo più “grande e grosso” ha spalle abbastanza larghe per poter sorreggere da solo il peso dei ricordi.

Fine dei programmi, fine della serie TV a cui si era appassionato per qualche mese, il suo appuntamento serale, gli amici con cui rideva. Che c’è di grottesco? A chi non è capitato mai di trovarsi talmente solo da avere surrogati di socialità a un orario preciso, su un preciso canale? E sentirsi smarrito alla fine della serie, con una domanda tra tante, “A quando la prossima risata”?
Guardava il soffitto cercando di concentrarsi su qualche angolo di vuoto, difficile da individuare in mezzo a tutti i fermoimmagine pronti per essere avviati da un semplice attimo di distrazione.
Era tempo di uscire a fare due passi. Pioveva….Fosse stato un problema, ci avrebbe messo la firma per avere lunghe stagioni di pioggia, e lei di nuovo accanto a lui, nel loro letto sfatto, occhi rivolti alla finestra a guardare il grigio chiuso fuori, a fissare il rumore della pioggia, reciprocamente al riparo da qualsiasi pseudoguaio della vita, il loro abbraccio.
E invece, percorreva solo le strade della sua città, un piccolo universo calato nel traffico, tra il viavai di persone indaffarate, nemmeno il coraggio di guardarsi attorno per via della strana sensazione che la solitudine lo rendesse involontariamente più bravo a focalizzare le coppie intorno, e sembrava ci fosse solo quello per la città, solo gente innamorata e contenta. Seguiva il rincorrersi della sua ombra al passaggio sotto i lampioni, e si vedeva sempre più piccolo, sempre più stretto nelle spalle come se volesse nascondersi dentro di sè. Cercava di distrarsi ripensando a quante possibilità offrono le storie in certi film. Il primo raccontava di come sarebbe utile alla sopravvivenza poter cancellare i ricordi, come avrebbe potuto affrontare con più leggerezza i giorni senza trovarsi spiazzato dalla memoria. Fermo nella piazzetta nella parte vecchia della città, si stupiva di come anche gli spazi più sconfinati diventassero una piccola isola quando i ricordi ne definiscono i confini.
Tanto valeva arrendersi, come un uomo arrivato disarmato a un improrogabile duello.
“Quando si vuole uccidere un uomo bisogna colpirlo al cuore.” Diceva Ramón a Joe, e lei doveva aver imparato bene la lezione, e imbracciato un fucile.
Lei che nel suo sguardo tornava a essere lì, ferma ad aspettarlo, puntuale, sorridente, impaziente. Lei che all’improvviso era diventata distante persino quando la incrociava per caso, e aveva scritto la fine di una storia, portandosi via promesse e gli interrogativi di lui soffocati malamente in risposte affrettate, vaghe.
Magari era ora di rientrare, indeciso se valesse la pena strappare ancora minuti a quella giornata sperando in chissà quale ritorno, in una telefonata, un sms da non mancare, o smetterla di torturarsi aspettando chissà cosa….Di fatto, persino dormire era diventato scomodo, è quel che succede quando i sogni sono talmente più preferibili alla realtà che è da stupidi decidere di svegliarsi.
Era quello il pensiero che gli dava conforto, che cosa assurda, in mezzo a tanta vita, a tante possibilità, teneva gli occhi fissi sulla sua uscita di emergenza. “Dovrebbero inventare un’uscita di emergenza che ci permetta di svicolare fuori senza lasciare traccia, solo la meritata, appannata sensazione di un’assenza, qualcosa a cui non si sa nemmeno che nome dare.”
Aveva in mente tanti film quella sera, nel secondo un uomo incoraggiava una ragazza a restare, come una scelta che doveva a qualcuno che ancora doveva arrivare a incrociarla, qualcuno che rischiava di non trovarla in quel luogo e in quel giorno totalmente sconosciuti, in cui però si sarebbero incontrati, secondo quel signore.
Per quale ragione? Chi può dire con assoluta certezza se sia giusto restare o andare via? La vita aveva scelto abbastanza per lui, e lui aveva ancora la libertà di scegliere cosa fare della sua vita, in fondo l’unico che potesse sancire con un nome la sua storia era lui. Era stanco, sicuro che c’era un sogno accogliente tra le lenzuola, un abbraccio che non si sarebbe sciolto al risveglio.

Non so come nè quale fu il pensiero su cui chiuse il giorno, magari qualcosa di poetico ispirato a un film, qualcosa come “Quando mi ritrovai nella luce accecante del sole, uscendo dall’oscurità….” aveva in mente solo due cose, che a un duello con un avversario armato di fucile non ci si presenta con una pistola, e che i suoi sogni erano davvero avvolgenti e accoglienti come un abbraccio.

http://www.youtube.com/watch?v=gct6BB6ijcw
Per la traduzione, http://www.pearljamonline.it/traduzioni/lostdogs.htm#I
….Ogni storia ha una canzone che la racconta.

Mattina,nodi e tarli.

lunedì, 24 Gennaio 2011 by

La sveglia suonava puntualmente ogni mattina alle 8 e puntualmente ogni mattina, ignorava quel suono. Restava con gli occhi semiaperti a guardare la luce che penetrava appena dalla finestra di fronte. Pensava, in sequenza obbligata, a quattro cose: buona giornata, cuore; ringrazio Dio per essere qui a poterlo pensare; è ora che inizi la mia giornata ; vado a farmi un caffè. Poteva scriverci una poesia ma non sapeva farlo, così annotava quelle frasi su un’agenda di fianco al letto, tra i libri che voleva leggere. Poi ci pensava su per altri venti secondi se era o no il caso di abbandonare quelle morbide lenzuola e andare in cucina, dove di sicuro avrebbe trovato una temperatura nettamente inferiore. Mentre preparava la moka del caffè aveva un sorriso strano. C’era stato un periodo in cui aveva pensato che la vita, il suo senso e le persone potessero essere racchiuse in una foto. Erano tutti così maledettamente uguali, con i loro tagli di capelli e i colori diversi. Le ragazze li lasciavano crescere lunghi fin sotto le spalle, come a voler dimostrare la loro libertà nel saperli portare così. Poi arrivava un uomo che le distraeva dai loro progetti e nel silenzio di pochi ragionamenti confusi, quei capelli erano stati tagliati in nome di un imminente cambiamento. Tagliare con essi anche tutto ciò che si era. Cambiare persino colore per non doversi riconoscere ad uno specchio.  Lei era rimasta la stessa, la color biondo cenere di sempre e questo lasciava perplessi, perché cambiava e in pochi se ne accorgevano.  Partì così per un viaggio molto personale dove non c’era posto per  il rimorso ed il rancore ma lo spazio era riservato all’emozione e a tutto ciò che la poteva arricchire. Perse la sua verginità emozionale quando si innamorò di un uomo e fu capace di non pretendere niente, solo lasciò perdere la fretta e l’impazienza. Il limite più grande che aveva era non saper accettare i propri sentimenti, non voler ammettere i propri errori e non riconoscere i propri limiti. Voleva spiegarlo a  chi ogni giorno pensava che cambiando apparenza, avrebbe cambiato sostanza. Per questo sorrideva. Sapeva che non ci sarebbe riuscita ma voleva provarci lo stesso. Il caffè uscì proprio nel momento in cui si rendeva conto di aver partorito questo pensiero e accompagnandosi con movimenti lenti, prese la tazzina di porcellana con i disegni floreali per sorseggiare quella colazione così strana. Pensò che voleva mandargli un SMS e lo fece davvero. Che timore doveva avere? In quel viaggio non c’era spazio neanche per la paura. Seduta al tavolo della colazione, mentre assaporava il retrogusto amaro del caffè e mangiava un biscotto preso a caso nella busta, si chiese se per caso gli altri biscotti fossero gelosi di quello che ora si stava avvicinando alle sue labbra. A metà  di quel viaggio si sarebbe resa conto che non c’era neanche tempo da perdere ad essere gelosi di qualcosa che in realtà non possediamo. Qualcosa che desideriamo possedere. Niente di più malato di questo tarlo può insediarsi nella mente di chi ama: il desiderio di avere per sé, per il proprio piacere personale, dimenticando che ognuno porta sulle sue spalle un passato ed ha un presente composto di parole, sguardi e azioni che mai potremo controllare. Sapeva inoltre che la mattina, quando si svegliava, l’avrebbe voluto al suo fianco non per girarsi nel letto e controllare che fosse ancora con lei. Perché non aveva bisogno di voltarsi a vedere, lei l’aveva guardato quella sera e aveva capito che non se ne sarebbe andato, tanto bastava. In questo modo lui poteva essere anche distante, fuggiasco, nascosto, ma lei comunque l’avrebbe visto. Ed essere gelosa di uno sguardo di un’altra donna o di una mano che si poggiava sulla sua spalla con malizia non aveva senso, lui poteva essere con lei ogni volta che voleva, senza aver bisogno di guardarla, perché  sapeva.

Vuoi dirmi dove sei?

martedì, 4 Gennaio 2011 by

“Vuoi dirmi dove sei?”  La voce di una ragazza descriveva quella che doveva essere stata una pessima giornata. Simone fece finta per pochi attimi di essere diventato sordo pur di non rispondere alla domanda. Sembrava retorica, detta solo per parlare. Invece Sara dall’altro lato del telefono, aspettava una risposta.

Era un pomeriggio qualsiasi, faceva freddo. Simone aveva voglia di fare un giro fuori casa per vedere quel via vai di persone che popolavano la sua città. Date le condizioni metereologiche, decise di avventurarsi in un colosso, denominato dalla gente comune “ Centro Commerciale”.  Un grande mostro che ha occhi come finestre a specchio e bocche come porte automatiche che ingoiano di volta in volta i malcapitati. Non c’è niente di meno romantico di un centro commerciale. I suoi negozi, allestiti a dovere, ti invitano ad entrare. Si compiacciono della merce esposta. Vendono velocità , il silenzio è in saldo. Simone entrò nel primo negozio sulla destra, una profumeria. Una commessa si avvicinò, lui la respinse.  Rimase ad assaporare mentalmente quei profumi di donna che arrivavano dagli scaffali e si perdevano nell’aria. Immaginò Sara, nuda, circondata da queste note olfattive. Quando aprì gli occhi, lo sguardo finì su una targhetta. “55€” –lesse e poi commentò a bassa voce “ Costa parecchio un sogno ad occhi aperti”. Uscì turbato e si diresse verso la scala mobile che portava al secondo piano, superando sulla sinistra una famigliola che procedeva a passo di lumaca. Mentre aspettava che quella grossa lingua meccanica lo portasse in cima, estrasse il suo cellulare, ultimo modello. Non c’erano messaggi né chiamate. Alzò lo sguardo e notò come la maggior parte di quelle persone intorno a lui erano indaffarate con quel mezzo elettronico. I ragazzini lo tenevano ad altezza ombelico per rispondere agli sms. Le signore di una certa età sembravano impegnate a premere tasti su una macchina da scrivere d’altri tempi. Poi c’erano gli uomini come lui. Occhi languidi da pesci lessi, sguardi persi nel vuoto o sul fondoschiena di qualche signorina e cellulare incollato all’orecchio. Qualcosa vibrò nella tasca della sua giacca. Simone allungò la mano e prese l’oggetto infernale. Sul display lampeggiava <Sara>. “Ciao amore”. Lui, freddo come un telegramma. “ Allora? Ti cerco da almeno due ore. Vuoi dirmi dove sei finito?”. Lei, scocciata e paranoica come una moglie che non si fida. “Ne parliamo più tardi”. La risposta ermetica di Simone, occhio languido e sguardo perso sul fondoschiena di una signorina.

Intervista a Marco Pace – Giugno 2010

martedì, 4 Gennaio 2011 by

Marco Pace - Visione nel Guggenheim 140x200 oilo su tela - 2009

Parlaci del tuo nuovo ciclo di dipinti.

Nelle opere di quest’ultimo ciclo, a protezione di quel fascino che il “selvaggio” ha sempre avuto sul mondo occidentale; l’incongrua presenza di figure che non siamo abituati a incontrare nelle vicinanze territoriali, nel contesto di architetture moderne; posti in compresenza ambientale, dovrebbe creare uno sfalzamento per lo meno di ordine visivo. Così la categoria dell’altro si stempera. Tutto è terreno di caccia: appaiono maschere di sacerdoti iniziati a riti primordiali, animali che si assalgono, com’è la loro legge. Il territorio manca di normalità, si spezza quella normale condizione di sicurezza che ci si aspetta. Non fa paura l’immersione nella natura selvaggia, fa paura il non riuscire a sopravvivere a qualcosa che non conosciamo. In questa condizione lo spettatore si trova spiazzato e l’immagine diventa di natura surreale, e a me piace.

“E’ troppo facile scrivere poesie quando si sta male” hai dichiarato in una delle tue ultime interviste, quando scatta in te la scintilla creativa?

La scintilla creativa in me non scatta, perché ho in me acceso il fuoco creativo che si alimenta con le immagini che mi rievocano una scena che a me ha lasciato una profonda impressione. Il mio lavoro è ritrovare quelle immagini, ormai perse perché passate, per poi dipingerle, in maniera da richiamare quella scena che in precedenza mi aveva impressionato, in modo più chiaro possibile.

Tra i tanti artisti maledetti ed incazzati hai dichiarato di amare Francis Bacon, un’artista che esprime nelle sue opere il dolore, il delirio della carne ma anche e, soprattutto, la sofferenza esistenziale. Attraverso urli devastanti e corpi lacerati. Dove trovi nei tuoi lavori questa estetica della devastazione?

Nei miei quadri questa estetica della devastazione é di natura spazio temporale. Se dipingo una figura in un luogo in cui essa non abita ho distrutto qualcosa: la nostra percezione della realtà e questo mi interessa in maniera inconscia.

Hai appena concluso un’importante viaggio a New York. Una città che ti ha riempito di soddisfazioni, ma soprattutto ti ha trasmesso il senso  della libertà di espressione. In Italia questa libertà secondo te è soppressa, si dovrebbe dare più importanza all’individualità di un’artista?

Non solo in America, anche in molti paesi nord europei. Lo Stato si interessa ai giovani artisti: ci sono molti concorsi, borse di studio ecc. promossi dallo stato. Ho conosciuto giovani artisti inglesi che prendono uno stipendio, o che hanno pubblicato un catalogo con i soldi statali. Il problema è: è giusto che un’artista giovane viva già del suo lavoro a vent’anni? Non ha bisogno di farsi le ossa sul campo? Non che l’arte abbia bisogno di malessere, ma sicuramente non ha bisogno di gente che a vent’anni si crede arrivata.

Marco Pace - la città è salita -olio su tela 100x100 - 1998

Passiamo ad un tuo progetto che mi interessa particolarmente “La Città è Salita”. Penso a Boccioni e alla “La città che sale”, la sua Milano è una proto metropoli, depositaria delle emozioni dell’uomo moderno, perso nella dinamicità del caos metropolitano.

Addirittura mi viene da pensare all’opera “Stati d’animo” e ai cavalletti che Boccioni metteva nella stazione di Milano dipingendo le persone che vanno e vengono, come se la location metropolitana fosse una sorta di palcoscenico esistenziale. Nella tua opera, “La Città è salita”, parti dai presupposti di Boccioni ma tutto si sviluppa in chiave apocalittica. Parlaci di questo prodigioso progetto.

Quando studiai i quadri di Boccioni ne rimasi molto impressionato. “ La Città che sale” è come un tatuaggio che porto dentro. I colori, la tecnica, e il significato di quel dipinto mi portarono almeno a 5 anni di lavoro sulla mia pittura. Quel dipinto fondamentalmente m’inquietava e di solito mi portava a pensare: se “La città che sale” rappresenta, così di primo impatto, la voglia che ha la città stessa di crescere e di svilupparsi in maniera colossale, ed è stato dipinto agli inizi del ‘900, ormai, nel 2000 la Città è Salita… così immaginai un enorme Dio artificiale che si auto creava, non aveva più bisogno dell’uomo per costruirsi ma aveva una vita propria e iniziava a conquistare tutti gli spazi naturali. Così dipinsi quel quadro, e un’altra cinquantina di quadri sullo stesso tema. Tutta quella serie la dipinsi senza il supporto di foto quindi senza alcun riferimento ad immagini reali. Oggi tutti i miei quadri hanno bisogno di foto infatti la prima parte del mio lavoro, oggi, è la fotografia. Per poter dipingere la realtà ho fatto molti quadri en plein air dopo il 2000.

Ultima domanda, quale artista richiameresti in vita?

Richiamerei in vita, naturalmente con un rito voodoo, gli artisti morti giovani che più apprezzo cioè, per citarne due, Keith Haring e Andrea Pazienza.

Intervista a cura di Daniela Nativio.

Marco Pace - la città è salita 2 - olio su tela 130 x 80 - 2002

Marco Pace - monkey suicide II - 65x80 drawing -2010